Daniela Colombo

Essere una mamma con la sclerodermia

Vedersi con gli occhi del proprio figlio

 

Ha 8 anni, un cappellino da baseball in testa e mi abbraccia. Ride. Di quella risata che canta sulle labbra e brilla dentro gli occhi, che appartiene solo ai bambini.

È un bambino felice, spero. È un bambino tormentato, temo.

Ero già malata di sclerosi sistemica prima di decidere che avremmo voluto un bambino. Per riuscire ad averlo – in un percorso lungo e difficile – ho sospeso le cure. Per un tempo piuttosto lungo, perché non riuscivo a restare incinta. Poi finalmente è successo e l’ho perso. Avevo 43 anni, il mio orologio biologico ticchettava impazzito. Abbiamo scelto la strada della fecondazione assistita di 1° livello. La prima volta, un nuovo dolore. Alla seconda, lui c’era. Una gravidanza perfetta, tanto felice quanto facile.

I medici mi avevano avvertita che dopo la gravidanza i sintomi sarebbero peggiorati e così è stato. Ho dovuto riprendere la terapia. Ho dovuto affrontare l’aumentare dei disagi e delle complicazioni. Ho potuto amare il mio bambino ogni giorno un po’ di più. Ho cercato di dargli gioia, amore infinito, serenità, possibilità, mondi da scoprire, giochi da condividere. Ho cercato di essere la sua mamma incrollabile e saggia. Ho cercato di essere la sua mamma allegra e maldestra. Quello che non ho potuto fare è stato difenderlo dalla mia malattia.

Medici e psicologi consigliano di coinvolgere il bambino nelle malattie dei genitori, di presentare la situazione come gestibile, di non lasciarlo solo a cercare di capire, ad avere paura di chiedere, a cercare risposte che neppure i medici sono in grado di dare.

Suggeriscono di spiegare al bambino in quale misura la malattia è invalidante per il genitore, quali limitazioni obbliga a sopportare, quali aiuti sono necessari.

Ho cercato di farlo. Cerco di farlo, ogni giorno. Adatto spiegazioni e parole alla sua crescita. Ogni giorno le sue conoscenze e la sua capacità di dedurre si ingrandiscono come una bolla di sapone gigante di cui assisto il formarsi. Il soffio che alimenta la bolla sono le sue esperienze, il confronto con gli amici, le nozioni nuove, lo studio, le tante domande a cui mi chiede di rispondere, ma ha solo 8 anni e io sono solo la sua mamma. Spesso è troppo grande e qualche volta cerca di essere piccolo per non dover affrontare.

È facile dire “parla al bambino”. È difficilissimo, per una che è solo una mamma, usare il linguaggio giusto. Sono frottole che l’amore basta. Sono frottole arroganti e semplicistiche. Ciò che basta nell’essere solo una mamma è l’amore, quello che ti fa desiderare di dare il meglio, quello che ti fa mettere in discussione, quello che ti fa cercare aiuto che, a volte, è proprio quello del bambino.

Non sono un medico, non sono una psicologa infantile, non sono una educatrice e neppure una insegnante. Tutto ciò che so di bambini l’ho imparato crescendo il mio e, ovviamente, leggendo e chiedendo, ma non è facile lo stesso. Soprattutto perché c’era e c’è ancora la convinzione che i genitori abbiano le risposte e sappiano darle. Non è vero. I genitori hanno tante domande, come i bambini, ma vivendo hanno inventato qualche risposta. La loro.

E poi i genitori hanno paura. Io ho paura e ho scelto di dirglielo. Ho scelto di raccontargli che mi è capitata questa cosa e non ci posso fare niente. Posso solo scegliere come viverla. Cerco ogni giorno di spiegargli che è semplicemente bello essere vivi, esserci, anche se sembra che non sia nel migliore dei modi, ma il modo lo scegli tu. Altrimenti chi è ricco, bello, sano, intelligente e, magari, pure spiritoso dovrebbe essere sempre felice e così non è.

Al ristorante ripete 333 volte al cameriere di stare attento “perché la mia mamma non può mangiare il glutine”. Quando fa freddo e le mani diventano technicolor, le stringe fra le sue e cerca di infilarsele in tasca tutte insieme “magari così non hai più freddo“. A volte cerco di scherzare e gli dico che non è mica da tutti avere le mani che cambiano colore.

Magari la mamma tanto tempo fa era un camaleonte

Ai camaleonti non fa male cambiare colore, a te sì” e mi accarezza le mani con quella tenerezza antica che si prova di fronte al disagio di chi si ama.

Quello che la malattia fa a me posso affrontarlo e trovare le mie strategie per farci la pace. Quello che fa a lui, mi fa male. Mi fa sentire in colpa. Lo so, che non l’ho scelto, non l’ho provocato, non l’ho cercato. È successo, ma lui è il mio bambino. Io posso piangere per lui. Lui non deve piangere per me.

Nei periodi in cui il dolore è più difficile da sopportare o si susseguono giorni infiniti in cui sintomi nuovi giocano a rincorrersi e non si pigliano mai, lui è più nervoso. Dorme male. Cerca di provocare la lite.
Ha un rapporto difficile con il cibo. Mangia con la fame sana dei bambini, ma non rischia. Non assaggia nulla che prima non gli venga spiegato dettagliatamente. Nulla che possa indurlo a sospettare di contenere qualcuno degli alimenti che fanno parte della sua sfera proibita. Mangia un solo tipo di frutta e solo zucca o zucchine (non insieme) soltanto se in crema. È il suo modo – a detta della psicologa – per dire “Qui dentro non ci sta nient’altro. Non posso azzardare oltre perché sono al limite”.

È anche il suo modo di tenere la situazione sotto controllo. Ci sono troppe cose che non riesce a gestire e controllare e i suoi ‘no’ lo aiutano a non sentirsi sopraffare da quello che lo spaventa. I bambini sono egocentrici. Per loro natura sono portati a riflettere su se stessi ogni cosa che avvenga intorno a loro. Questo fa sì che la sua chiave di lettura sia “la colpa è mia se la mamma sta male”.

Uno degli aspetti più limitativi è non potergli dare una speranza. Non guarirò. Non posso offrirgli questa scappatoia, perché non posso concedermi il lusso di mentire. Sarebbe facile, ma a lungo andare deleterio. Non si fiderebbe più e questo comprometterebbe tantissime sfere del nostro rapporto, che è un rapporto bellissimo, di grande complicità.

Non posso neppure promettergli che non mi capiterà nulla di ciò che lui teme. Non sarà la malattia a causarlo in tempi anomali dal normale corso della vita, ma potrebbe essere un’altra malattia o un incidente o non lo so e neppure voglio pensarci. E lui continua ad avere 8 anni. “Non mi capiterà nulla” è una promessa, sopratutto se fatta da una mamma, e se venisse tradita… non basterebbero tutti gli psicologi del mondo a fargli ritrovare l’equilibrio e la serenità.

La psicologa mi dice che se è vero che lui si è trovato ad affrontare tutto questo, è anche vero che questo è il suo modo di affrontarlo. Ci sono bambini, con un genitore ammalato, che reagiscono in modi diversi. Da mamma, mi intristisce già il fatto stesso che siano costretti a reagire. Nel mio linguaggio “mammesco” significa che non possono passarne attraverso indenni.

Fa male a una mamma vedere le lacrime del figlio. Figuriamoci esserne la causa. Allora cerco di ridere. Di dimostrargli che dipende da me, ridere. Perché questo è quanto di buono voglio raccogliere da questa esperienza e voglio trasmettere a lui.

Voglio immaginarlo tra 30 anni, seduto su un dondolo in una veranda che guarda il mare, con un lui in miniatura sulle ginocchia, a cui racconta che è stata la nonna ad insegnargli che si può ridere, che si deve ridere. “Sai, piccolo, non è cosa ti succede. È come tu lo affronti”.

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