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Donne lavoratrici al sud

La storia di Grazia

 

Mi tocca parlare delle donne lavoratrici. Delle donne del Sud, poi. Delle donne siciliane… miiiii! Bisognerebbe dare spazio a pregiudizi, luoghi comuni, stereotipi. Bisognerebbe parlare della donna che, se proprio vuole lavorare, deve fare lavori da donna (?), mica l’ingegnere o la manager. Stereotipi, appunto.

Non nascondiamoci, però, dietro altri luoghi comuni: non è che, volendo sembrare a tutti i costi ‘emancipate’ (per usare un termine Seventies), possiamo affermare che una certa visione della donna, carica di pregiudizi e prodotto di ragioni sociali secolari, sia stata estirpata del tutto dalla Sicilia e dal Meridione.

Fatta questa premessa, la mia personale esperienza – perché di questo posso parlare, non certo di statistiche o riflessioni sociologiche – mi suggerisce un altro racconto. Un racconto fatto di storie di generazioni di donne a me vicine, storie comunque comuni ad altre donne siciliane.

È la storia di Maria, mia nonna, lavoratrice, per necessità ma anche per passione. Una donna che orgogliosamente andò ad esercitare il (sudato) diritto di voto alla fine della guerra e scelse il nuovo, la Repubblica.

È la storia di un’altra Maria, mia madre. Si oppose al padre perché voleva continuare gli studi e andare al liceo classico, la scuola ‘dei ricchi’, e poi addirittura (!) all’università. E in questa sua lotta trovò il sostegno concreto della madre. Maria fece poi il lavoro dei suoi sogni, l’insegnante, per lei una vocazione e il raggiungimento di uno status sociale ‘importante’, perché in quegli anni ‘fare la professoressa’ era un privilegio e avevi il rispetto del contadino e del notaio (se te lo meritavi, ovviamente).

Mia madre era (è) insomma una ‘femminista’ inconsapevole, fervida sostenitrice dell’indipendenza economica della donna e che guarda tuttora, con grande sospetto e un pizzico di amarezza, ai miei lavori ‘a tempo’ e alle mie chiacchiere da freelance. Al fianco di mia madre lavoratrice c’era poi lui, mio padre: impiegato statale con grandi responsabilità, di quelli che arrivano in ufficio sempre per primi e se ne vanno per ultimi, ma che non si tirano indietro se devono dare una mano in casa e lavare i piatti.

Sono cresciuta con questi modelli familiari ‘moderni’ e collaborativi. Altri modelli di donne siciliane, forti e impegnate, ho poi incontrato lungo la mia strada. Come la mia Maestra, la docente universitaria che con la sua passione e la sua professionalità mi ha insegnato cosa vuol dire fare ricerca. Con lei ho avuto la fortuna di lavorare per tanti anni, imparando, sbattendo la testa, ripartendo e sempre amando quello che stavo facendo, l’archeologa numismatica.

Ormai non scavo più da tempo e la precarietà della mia condizione di ricercatrice non strutturata si è trasformata nella realtà di una freelance. Non ho cambiato mestiere. Un’archeologa, anzi una archeo-numismatica, come mi definisce mio figlio, rimane tale tutta la vita, se lo porta dentro, perché non è un mestiere che scegli a caso o come ripiego, ma lo cerchi e lo insegui con testardaggine e passione.

Certamente io e tutte le donne archeologhe siciliane avremmo moltissimo da raccontare: delle straordinarie potenzialità della nostra terra, imbrigliate tra burocrazia e politiche altalenanti; dei nepotismi atavici, radicati nelle teste dei gattopardi siciliani; della lentezza con cui si muovono i cambiamenti in Sicilia, inversamente proporzionale alla forza dello scirocco che ci investe in certe giornate. Sì certo, non è una situazione che coinvolge soltanto noi donne, ma noi lo percepiamo di più sulla nostra pelle di lavoratrici (o aspiranti tali) e di madri, forse perché abbiamo dentro il DNA l’ostinazione e la volontà di andare avanti contro luoghi comuni e difficoltà quotidiane.

E allora?

Allora ho deciso di tirare le fila di una vita professionale e concretizzare un progetto personale, ma non da sola. L’ho fatto insieme a donne che avevo incrociato e conosciuto negli anni e che mi avevano conquistato per la loro volontà di andare ‘oltre’ un lavoro sicuro o precario che fosse e agire sul territorio con iniziative di crescita culturale e sociale.

È nata così la nostra rete di competenze e progettualità che, in concreto, assume la forma di un coworking, inteso non tanto come postazioni di lavoro all-inclusive da affittare, ma soprattutto come spazio di condivisione, scambio e crescita personale e professionale. Questo progetto, diventato realtà nell’ultimo anno, mi ha aperto un mondo. Scopro, molto più diffusa di quanto pensassi, una grande volontà da parte di tante donne siciliane di fare rete, aggregarsi, superare l’atavica gelosia femminile, mettere da parte insuccessi e rimpianti, condividere le proprie conquiste professionali, reinvestendole in progetti comuni. Tutto questo in un contesto territoriale di provincia, non facile e spesso sordo alle iniziative private e, aggiungo, alle iniziative femminili. In più, come tutte le donne italiane, inventandoci triangolazioni (im)possibili tra famiglia e impegni lavorativi senza orario.

Questa voglia di fare rete non credo, certo, che appartenga alla sola Sicilia, ma forse qui da noi le difficoltà sociali ed economiche, negli ultimi anni, hanno spinto molte donne a mettere in atto la loro proverbiale flessibilità. E ad agire. Senza attendere che i poteri politici (non a caso, sempre prevalentemente maschili) decidano, per l’ennesima volta, del loro futuro e dei loro sogni. Perché noi, donne siciliane, la valigia vogliamo farla soltanto per andare in vacanza.

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