Smart working, ti amo e ti odio
Come le donne sono state penalizzate dallo smart working
Anche tu sei tra coloro che hanno sognato, prima che la pandemia rubasse il nostro tempo e la nostra energia, di lavorare in smart working?
Anche tu hai sperato di essere libera di lavorare ovunque ti portasse la fantasia, non importa se a casa, sul bordo di una piscina o in uno di quei particolari luoghi oggetto del desiderio che hanno il nome di coworking, tra una tazza di caffè americano, una videoconferenza o una chiacchiera con altri fortunati smartworker?
Bene, ora sai quanto me che lo smart working – o almeno quello che abbiamo fatto fino a oggi, più simile a un telelavoro obbligato – può non essere la soluzione migliore per te che sei donna, moglie e mamma.
Ancor più se la tua età ha superato l’asticella dei 50 e continui a confrontarti con compagni di vita poco “smart” nelle questioni domestiche, di quelli che se gli metti davanti un uovo da cuocere sono capaci di metterlo nel forno con tutto il guscio!
Apparentemente lo smart working sembrerebbe un diamante tagliato a misura sulle esigenze delle donne: ti permette di lavorare da casa o dovunque tu vuoi, ti garantisce salario e attività , fa pure tanto figo perché prima lo facevano solo poche aziende.
La realtà è assai più complessa – e oserei dire peggiore – di quanto possa apparire.
Se a ciò ci si aggiunge la difficoltà di fare i conti con una diversa modalità di approccio al lavoro, ecco che è facile che le speranze riposte in questo strumento vengano abbandonate per auspicare un rapido e funzionale rientro nelle sedi di lavoro.
È vero, va dato atto che lo smart working, che ci ha accompagnato nel 2020, ci ha messo in condizione di essere operative anche lontano dall’ufficio e di mantenere il posto di lavoro (e uno stipendio, siamo sempre grate di ciò!), ma quanta fatica ha comportato?
Quanti sacrifici abbiamo dovuto fare per mettere insieme e far convivere senza troppi attriti famiglia, tempo personale e tempo professionale?
Lo smart working, così come lo abbiamo conosciuto durante la pandemia – al netto degli immancabili problemi di connessione e di attrezzatura informatica, spesso condivisa con figli e coniuge, se non addirittura inesistente – lo abbiamo subito apprezzato come modalità di lavoro, per poi renderci conto che è stato un carceriere gentile capace di rinchiuderci in una bolla e di ampliare a dismisura il tempo di lavoro: in sintesi, ha finito per fagocitare ogni momento della nostra giornata e ci ha riportato a fare le donne di casa.
Credo di non esagerare se affermo che lo smart working, anziché aiutarci nella nostra evoluzione personale e professionale di donne del XXI secolo, ci ha fatto ripiombare in modo subdolo in dinamiche di interazione così simili a quelle degli anni ’60, quando il lavoro delle donne era cosa rara e semmai si preferiva identificare l’impegno femminile nell’ambito familiare.
Ammettiamolo: quante volte abbiamo sospeso le attività professionali per risolvere banalità di figli e mariti? Quante volte abbiamo interrotto il flusso di pensiero per doverci mettere ai fornelli e preparare il pranzo (e poi lavare i piatti e riordinare la cucina), mentre gli altri componenti di casa proseguivano indisturbati nelle loro attività lavorative? E quante volte ci è capitato di fare notte per recuperare il tempo di lavoro speso a occuparci delle esigenze della casa e dei familiari?
Lavorare in smart working è bello, utile, proficuo se ci sono le giuste condizioni (che per la maggior parte di noi fino a oggi non ci sono state), altrimenti diventa un abdicare le conquiste ottenute nel corso dei decenni.
Hai mai pensato che azioni banali come vestirsi, truccarsi, uscire di casa, prendere l’auto o i mezzi pubblici per raggiungere l’ufficio abbiano promosso la valorizzazione delle donne, della loro autostima, delle loro capacità professionali?
Lavorare in un ufficio pone tutti – uomini e donne -in una situazione di parità , ci aiuta a definirci attraverso la professione e non per lo stato civile o sociale. In ufficio non c’è spazio per ruoli diversi che non siano quelli professionali. Lo smart working, al contrario, se non realmente smart e supportato dai familiari, rischia di riportarci a ruoli e situazioni in cui la nostra professionalità viene messa in discussione, quasi che il nostro lavoro abbia meno valore.
Prova a chiedere a un marito/compagno/figlio di interrompere o rimandare una videoconferenza, una lezione di didattica a distanza o la stesura di una relazione: ti risponderanno che è impossibile perché stanno lavorando o studiando. E tu, invece, quante volte ti sei dovuta interrompere?
Ed ecco che – pur tenendo conto dei rischi connessi alla pandemia e ove possibile – tante donne stanno valutando di rientrare volontariamente in ufficio, luogo in cui le ore di lavoro sono nettamente separate da quelle degli impegni familiari, non si è costrette a restare connesse senza soluzione di continuità e, soprattutto, si viene considerate per il proprio ruolo professionale,
Qual è stata la tua esperienza in questi mesi trascorsi?
Ti senti una donna penalizzata dallo smart working?
Raccontacelo nei commenti.
Devo ancora capire quanto male mi ha fatto lo smart working. Di sicuro mi ha portato sull’orlo del burn out, quando mi riducevo a fare videocall che iniziavano alle 18, dopo una giornata intera passata al pc! Io vivo da sola, per cui ho vissuto l’altro aspetto della medaglia, ovvero essere totalmente fagocitata dal lavoro perché tanto dovevo rendere conto solo a me stessa. Ed è stato – ed è – agghiacciante. Questo ha cambiato anche il mio comportamento in ufficio quando sono in presenza (ormai sempre di più): faccio tardi in ufficio perché so che se torno a casa presto mi metterò ugualmente al pc continuando a lavorare da lì. E non va bene. Lo smart working così totale da un giorno all’altro ci ha buttato tutti allo sbaraglio. E il fatto è che in un anno non è successo nulla per poter sistemare e regolarizzare questo metodo di lavoro: io da casa lavoro col mio pc, per esempio, uso dunque risorse mie personali e non quelle d’ufficio. Potrei andare avanti per ore…
Sì, sicuramente potremmo discuterne per ore. Quando si parla di tempio di vita e di lavoro ci si dimentica la difficoltà – soprattutto delle donne, perché soffriamo della sindrome di Florence Nightingale, ovvero di correre in soccorso di chi ha bisogno – di dare confini netti alle due attività . A me è capitato di lavorare sabato , domenica, di notte e perfino quando ero in ferie. Oggi, cerco di autoimpormi dei paletti, ma non è semplice. E il giorno a settimana che rientro in sede mi sembra una festa, perché riesco a fare tante cose di più per me