Quella del sud che è andata ancora più a sud
La storia di Giovina
La tendenza per i meridionali è sempre stata quella di trasferirsi al nord. Non tanto tanto nord, anche il centro può bastare, perché (diciamolo) le possibilità, varcata l’immaginaria linea che segna il mezzogiorno d’Italia, sono di certo superiori.
Io sono andata in controtendenza perché ho scelto di andare ancora più a sud: dalla Puglia centrale alla Puglia meridionale. Un viaggione esagerato!
Le iniziali motivazioni di questa scelta sono legate a necessità logistiche: ero iscritta al conservatorio di musica in una città e alla facoltà di Beni Culturali 150 km più a sud. Solo la testardaggine dei 18 anni porta a pensare di poter frequentare brillantemente entrambe le scuole, ma inesorabilmente, dopo un anno, mi resi conto di non farcela e scelsi di abbandonare la musica prediligendo l’esperienza universitaria da fuori sede.
L’archeologia non l’ho scelta per passione o ideologia, è stata una casualità. Ero di certo appassionata d’arte, di quella che si insegna al liceo, e la mia tendenza al “classico” scorreva già sulla tastiera del pianoforte. L’archeologia, però, non era contemplata nel ventaglio delle mie scelte universitarie. Me la sono ritrovata davanti al momento dell’iscrizione alla facoltà.
Diciamolo: a conoscere prima le problematiche che questa decisione avrebbe causato nell’età adulta in ambito lavorativo, mi sarei data all’agraria che tanto sempre in mezzo alla terra e all’aria aperta sarei stata, ma con soddisfazioni di guadagno migliori.
Quello che il pacchetto di esperienze archeologia+sud mi ha trasmesso, però, è assolutamente impagabile. L’unica nota stonata è il sistema universitario italiano, ma di questa me ne sono liberata e dunque non serve parlarne.
L’archeologia non è solo quella cosa da Indiana Jones o Tomb Rider tutta cosce sode e tesori preziosi da scoprire. L’archeologia fa esplorare, conoscere, curiosare; infonde la logica per risolvere millemila situazioni, fa viaggiare tanto. È talmente multidisciplinare, che fornisce una miriade di conoscenze e di strumenti, che alla fine si scopre di saper fare tutto e anche abbastanza bene, come riuscire a preparare una cena per 35 persone in una cucina di scuola materna mentre termini un rilievo in CAD di una struttura muraria romana. A furia di studiare le popolazioni antiche, poi, finisci con lo scoprire che assomigliano molto a quelle moderne e che è proprio vero che dalla storia si può imparare ad evitare gli errori e a migliorare il presente.
La vera ricchezza è che si impara a conoscere davvero un territorio, i suoi abitanti, la sua cultura; ne scopri radici e tradizioni. Si impara ad ascoltare quello che con la frenesia quotidiana spesso si ignora: il lato buono e quello cattivo, ciò che lo rende così bello o così brutalmente rovinato, cosa lo mette a rischio e cosa fare per proteggerlo. E alla fine ti innamori della tua terra e scegli di non abbandonarla mai più, esattamente come si fa con una persona amata (forse pure di più!).
Il sud è così: bello ma con grandi ferite.
Se la sua gente va via senza tornare indietro, chi potrà mai conservare le tradizioni? Chi serberà i ricordi? Chi racconterà cosa c’era in quei luoghi?
Poco più di 10 anni fa la Puglia ha iniziato a destarsi e ad accorgersi che stava perdendo una delle cose più preziose che un popolo possa avere: i suoi giovani. Nei piani alti hanno dato finalmente avvio alle politiche giovanili, che in parte hanno iniziato a ridestare il popolo dal suo torpore e a far capire che questa terra può rinascere e può essere rigenerata proprio con l’entusiasmo e la forza dei suoi figli.
In quegli anni terminavo il percorso di studi universitario e mi gettavo subito in un dottorato di ricerca, che mi fu finanziato proprio dalla regione (per i residenti in Puglia che decidevano di restare in Puglia) e la mia ricerca si concentrò sullo studio del territorio nel suo aspetto storico-archeologico.
Per fortuna, poco prima di terminare il dottorato e rendermi poi conto un paio di anni dopo dell’inesistenza di un percorso lavorativo universitario, sulla scia di quest’aria di innovazione e rivoluzione che si respirava in Puglia con le politiche giovanili, con alcuni amici gettammo le basi per un progetto di coworking in Puglia, con lo scopo primario di fornire uno spazio di lavoro a tutti i professionisti a rischio lavorativo come noi e di diventare un contenitore aperto in grado di riunire competenze, idee, progetti. Avevamo pochi concetti, ma molto confusi.
L’associazione nata da questo progetto oggi si chiama La Capagrossa.
La scelta del nome non è stata un caso. La terminologia, nel suo significato vernacolare, veniva un tempo utilizzata dai contadini per esprimere tenacia e determinazione, ma nel tempo ha mutato significato, acquisendo un’accezione negativa. Noi abbiamo deciso di ridare valore al termine, perché abbiamo ritenuto che fosse giunto il tempo per tutti di rivalutarsi, di reinventarsi. Ci siamo messi in testa che con curiosità, rischiando in energia e ricerca, avremmo potuto costruire nuove relazioni, nuove passioni. Liberi.
Nel mentre si formavano queste idee, abbiamo ottenuto tramite bando gli spazi comunali che avrebbero ospitato il coworking e dopo siamo risultati vincitori, primi in graduatoria, di un finanziamento a fondo perduto della Regione Puglia: con lo spazio a disposizione abbiamo avuto la possibilità di poter realizzare le azioni che ci eravamo prefissati e anche molte di più.
Il progetto ha mantenuto l’assetto progettuale originario (lo spazio di coworking), ma si è evoluto in un gruppo di persone sinergiche supportate da una enorme rete di amici, familiari, conoscenti a vario titolo, che hanno dato vita ad una serie di iniziative mirate proprio a dare voce, vita e possibilità a tutte quelle idee meravigliose che possano garantire la rinascita di un territorio: la rigenerazione urbana, la costruzione di comunità, la valorizzazione e la conoscenza storica e culturale del territorio attuata in modalità differenti, come ad esempio attraverso la mobilità lenta, la rivalutazione delle attività manuali tradizionali, l’artigianato digitale.
C’è un aspetto molto importante alla base dello spirito del coworking, ovvero lo smart working, il lavoro agile. La sede è adiacente ad una scuola materna: quale enorme vantaggio per genitori freelance?
Conoscete quel detto “non conta la meta ma il viaggio”? È proprio vero.
Dal 2014, anno di ideazione del progetto, lo spazio ha aperto ufficialmente alla fine del mese di settembre 2017, cioè dopo più di tre anni. Il percorso, anche se lungo, ci ha arricchiti moltissimo. Ognuno di noi si è liberato del peso di un destino lavorativo grigio e soprattutto occlusivo per la mente. Abbiamo aperto i nostri orizzonti e scoperto che insieme si può fare molto e anche bene.
Ci vuole forza, energie, coraggio e spirito di volontà, ma alla fine si riesce anche tra mille milioni di difficoltà.
Grazie a questa esperienza (e alla potenza del web) ho cambiato dunque le mie impostazioni mentali che rischiavano di restare soffocate; ho stretto relazioni sinergiche che mi consentono adesso di collaborare a progetti di comunicazione culturale, dove mettere a frutto il mio percorso di studi, e che traggono il loro successo proprio dalla collaborazione che si va a creare tra i componenti di un gruppo di lavoro. Ho scoperto cosa vuol dire comunità.
E sopratutto continuo a viaggiare come una pendolare pazza su e giù per la Puglia.
Si continua a sbarcare il lunario qui al sud, ma la qualità della vita e lo stare vicino alla propria gente e alle proprie tradizioni è impagabile.
Chi sceglie di rimanere è coraggioso, chi decide di partire lo è ancor di più.